IL PRETORE
   Letti gli atti del procedimento penale n. 30110/97 r.g. mod. 23, n.
 4144/94 r.n.r., a carico di  Buselli  Ezio,  ha  emesso  la  seguente
 ordinanza.
   All'udienza  del 24 ottobre 1997 il difensore di Buselli Ezio, dopo
 aver  presentato  tempestivamente  richiesta  di  rinvio   ai   sensi
 dell'art.  486 c.p.p. in quanto il suo assistito abita in uno stabile
 gravemente danneggiato dal sisma, insisteva nella predetta istanza.
   Quanto  sopra  costituisce  una  causa  di legittimo impedimento ai
 sensi dell'art. 486 c.p.p.
   Si pone pero' il problema del termine di  prescrizione  del  reato.
 In  assenza  di  una  norma  specifica,  tale termine di prescrizione
 continuerebbe a decorrere necessariamente per  tutto  il  periodo  di
 durata del legittimo impedimento, che si preannuncia non breve.
   Vero  e'  che,  in  tutte  le  occasioni  di eventi tellurici della
 portata  simile  a  quello  in  essere,  sono  state  emanate   leggi
 eccezionali che dispongono la sospensione dei termini di prescrizione
 per  "l'esercizio  dei diritti". Ma, a parte il fatto che ancora tale
 legge eccezionale non e' stata emanata,  ne'  si  possono  conoscere,
 ovviamente,  i  termini  in  cui  verra' redatta, va osservato che la
 sospensione del termine di prescrizione  relativo  all'esercizio  del
 diritto  -  che  si legge come una sorta di stilema in tutte le leggi
 eccezionali riguardanti le "provvidenze" a favore di zone terremotate
 - riguarda certamente i diritti soggettivi dei privati, ma non sembra
 possa  applicarsi  in  assenza  di  esplicita  previsione  all'azione
 penale,  che  costituisce  esercizio  del  c.d. potere punitivo dello
 Stato, insuscettibile di esprimersi in termini di  "esercizio  di  un
 diritto", com'e' proprio dei rapporti intersoggettivi.
   La  recentissima ordinanza del Ministro dell'interno del 13 ottobre
 1997, ha poi disposto  la  sospensione  dei  termini  "relativi  alle
 controversie   giurisdizionali   ed   amministrative"   (comma  sesto
 dell'art. 11 dell'ordinanza n. 2694 del 13  ottobre  1997.  E'  pero'
 assai  dubbio,  anche qui, che tale sospensione riguardi i termini di
 prescrizione, agli effetti di cui al primo comma dell'art. 159  c.p.,
 proprio perche' trattasi di previsione di carattere assai generale ed
 anche  questa  dettata, almeno secondo l'interpretazione migliore, in
 riferimento alle posizioni  soggettive  di  coloro  che  operano  nel
 processo;  anzi, poiche' l'art.  11 sopra citato tratta unicamente la
 materia fiscale, non  e'  da  escludere,  ed  anzi  appare  piu'  che
 probabile,  che  le controversie "giurisdizionali ed amministrative",
 di cui parla la norma, siano solo quelle in materia  tributaria.  Ne'
 si  possono  trascurare,  in  ogni  caso i delicatissimi problemi che
 sorgerebbero da un eventuale deroga a  fonti  normative  a  carattere
 primario   (le   leggi   processuali,   ivi   comprese  quelle  sulla
 sospensione) recata dall'ordinanza  del  Ministro  che,  sia  pure  a
 carattere normativo, fonte primaria non e'.
   Molto  spesso  la  Corte  costituzionale e' venuta ad occuparsi sia
 della  sospensione  che  dell'interruzione  della  prescrizione,   in
 riferimento  ad  ipotesi  denunciate  dai giudici di merito. Numerose
 sono  i  provvedimenti  di  reiezione  di  tali  questioni,  sia  con
 sentenze,    sia,    piu'   spesso   con   ordinanze   di   manifesta
 inammissibilita', sempre sul presupposto che  non  e'  possibile  una
 pronuncia  additiva  (per  di  piu' in malam partem) che introduca un
 nuovo caso di sospensione o interruzione del corso della prescrizione
 del reato, essendo  questa  una  scelta  che  appartiene  alla  sfera
 insindacabile e discrezionale del legislatore.
   Va  subito  detto,  in  punto  di  rilevanza della questione che si
 intende prospettare, che non  puo',  ad  avviso  di  questo  pretore,
 costituire  un  precedente  rilevante  nella  fattispecie l'ordinanza
 della Corte n. 115 del 28 aprile 1983, la quale fa perno sul  difetto
 di   rilevanza,  prospettandosi  la  prescrizione  come  astratta  ed
 ipotetica.  Il  quadro  normativo attuale prevede invece pericoli ben
 concreti  di  prescrizione,  soprattutto  nei  successivi  gradi   di
 giudizio,  e  cio'  e' un dato innegabile, ne' ascrivibile, se non in
 minima parte,  ad  un  lassismo  degli  organi  giudiziari  ovvero  a
 posizioni strumentali dei difensori.
   Si  fronteggiano  da  un  lato  le  esigenze che i processi vengano
 celebrati   in   termini   ragionevoli,   dall'altro    il    diritto
 dell'imputato,  "legittimamente  impedito"  ad  una idonea difesa per
 cause rientranti nella sua sfera ovvero in quella del suo  difensore.
 Terreno  di frequente elaborazione concettuale, al riguardo, e' stato
 quello dello "sciopero" degli avvocati. Assai indicativa, addirittura
 piu'  che  per  la  statuizione  in  se'  per  le  implicazioni   che
 necessariamente  comporta, Cass., sez.  VI, 17 dicembre 1992-5 luglio
 1993, imp. Montapuoli. Testualmente:    "...la  corte  di  merito  ha
 legittimamente applicato il principio del bilanciamento di interessi,
 posti  dall'ordinamento  a  base  dei  diritti  di tutela processuale
 nell'ambito dell'amministrazione della giustizia, dando prevalenza  a
 quello  dello  Stato,  diretto  ad evitare l'estinzione del reato per
 prescrizione,  rispetto  a  quello   del   difensore   dell'imputato,
 concernente  il  pur  legittimo  esercizio  dei  diritti personali di
 liberta' indicati nel ricorso, in particolare di quello di  astenersi
 dal partecipare alle udienze.
   La  ragione  che giustifica tale scelta va rinvenuta nella concreta
 possibilita' di alternativa, rispetto allo svolgimento  della  difesa
 di   fiducia   dell'imputato...   mediante  l'istituto  della  difesa
 d'ufficio, a fronte della impossibilita'  di  sospensione  del  corso
 della   prescrizione  del  reato,  limitata  ai  casi  tassativamente
 indicati nell'art. 159 c.p., ed in mancanza di eguale previsione  per
 il  caso  di esercizio del diritto di sciopero da parte del difensore
 dell'imputato, nella forma dell'astensione dalle  udienze,  che  pure
 costituirebbe  una apprezzabile eccezione alla regola generale (artt.
 157  e  160  c.p.)  se  il  legislatore,   nell'esercizio   del   suo
 insindacabile  potere  discrezionale  di  valutazione comparata degli
 interessi   generali,   intendesse   introdurla".   Piu'    che    di
 bilanciamento,  in  realta',  appare  trattarsi  di  due  principi in
 tensione non  sanabile,  cosicche'  prevale  l'uno  e  l'altro  viene
 sacrificato,  a  seconda  delle ipotesi. In particolare pare avallata
 un'interpretazione dell'art. 486 c.p.p. che presuppone una  sorta  di
 gerarchia  nell'ambito  della  piu'  generale  nozione  di "legittimo
 impedimento": cosa sarebbe avvenuto, ad  esempio,  nella  fattispecie
 esaminata  dalla  Cassazione,  laddove  l'imputato o il suo difensore
 fossero  ammalati  in  maniera  tale   da   non   poter   presenziare
 all'udienza?   La risposta appare evidente, nel senso che in tal caso
 l'art. 486  c.p.p.  avrebbe  precluso  comunque  la  trattazione  del
 processo.  E  dunque,  sembra,  che in alcune ipotesi, si avrebbe una
 sorta di impedimento assoluto, in  altre  ipotesi  l'impedimento  non
 sarebbe  cosi'  grave  da non essere comparativamente valutato (o, in
 termini piu'  brutali,  da  dover  cedere  il  passo)  rispetto  alle
 esigenze di un celere svolgimento del processo.
   Peraltro appare assolutamente inesatto presupporre, sia pure in via
 implicita, questa sorta di gerarchia nell'ambito degli impedimenti di
 cui  all'art.  486  c.p.p.,  cosi'  come  non convince il riferimento
 concettuale ad una sorta di composizione fra le contrapposte istanze,
 quelle relative al potere punitivo  dello  Stato  e  quelle  relative
 all'effettiva possibilita' del diritto di difesa.
   Quanto  al  primo  punto,  notiamo che il primo comma dell'art. 486
 c.p.p.  parla  di  "assoluta  impossibilita'   a   comparire".   Tale
 impossibilita'  a  comparire  e'  -  sintatticamente  ancor prima che
 logicamente - legata a caso fortuito, forza maggiore, altro legittimo
 impedimento.
   Che non vi sia  alcuna  gerarchia  tra  le  tre  ipotesi  e'  anche
 confermata dal quinto comma, il quale, relativamente al difensore, si
 limita  a  parlare  di  "assoluta  impossibilita'  di  comparire  per
 legittimo impedimento", laddove  e'  lapalissiano  che  il  legittimo
 impedimento,  a  fortiori,  non  puo' non ricomprendere anche il caso
 fortuito e la forza maggiore operanti nella sfera del difensore.
   D'altro  canto  il  giudice  dispone  della  c.d.  discrezionalita'
 tecnica,  per  cui  deve  valutare nel merito se sussistono o meno le
 condizioni di  legge  per  il  legittimo  impedimento,  ma  non  puo'
 stabilire  l'opportunita'  di  valutare  la  gravita'  del  legittimo
 impedimento e, conseguentemente,  decidere  se  trattare  o  meno  il
 processo.  In  altre parole, il legittimo impedimento dell'imputato o
 del suo difensore c'e' o non c'e', una volta stabilito  che  vi  sia,
 non  puo'  mai  il giudice "affievolire" il diritto di difesa sotteso
 all'impedimento quando vi sia un  interesse  "piu'  forte"  e  quindi
 capace di "degradare" l'interesse contrapposto (prendendo in prestito
 una immagine del diritto amministrativo).
   Ma  anche  nella  specifica motivazione alla base della soccombenza
 del diritto  di  difesa  di  fronte  al  diritto  (rectius,  potesta'
 punitiva)  statuale,  non  puo'  affatto  condividersi l'affermazione
 secondo cui la difesa,  non  esercitata  dal  difensore  di  fiducia,
 sarebbe  comunque  garantita  al difensore d'ufficio. Tale difensore,
 necessariamente nominato ai sensi dell'art. 97, quarto comma  c.p.p.,
 avrebbe  pur  sempre  diritto al termine a difesa che presumibilmente
 chiederebbe, proprio stante la situazione d'impedimento del  collega:
 infatti  non  e'  accettabile l'interpretazione propugnata da taluno,
 secondo la quale al difensore  nominato  ex  art.  97,  quarto  comma
 c.p.p. non si applicherebbe l'art. 108 c.p.p. e cio' sia perche' tale
 interpretazione  e'  smentita  dal  dato letterale (l'art. 108 c.p.p.
 parla   di   "nuovo   difensore   dell'imputato...    designato    in
 sostituzione",  l'art.  97, quarto comma prevede che "il giudice o il
 pubblico   ministero   designa   come   sostituto   altro   difensore
 immediatamente  reperibile"  cfr.  anche,  sull'applicabilita' a tale
 particolare sostituto dell'art. 102 c.p.p.,  Cass.,  sez.  prima,  n.
 3296 dell'8 ottobre 1991) sia, e soprattutto, perche' il nuovo codice
 ha  cercato  di  perseguire  l'effettivita'  della  difesa  anche del
 difensore nominato d'ufficio, con poteri e  facolta'  sostanzialmente
 uguali a quelli del difensore di fiducia.
   Pertanto  non  e' affatto assicurata quella pronta celebrazione del
 dibattimento, idonea ad evitare la prescrizione,  laddove  la  difesa
 sia  affidata  al  difensore d'ufficio, perche' quest'ultimo, ex art.
 108 c.p.p. potrebbe (e verosimilmente lo fara') chiedere il termine a
 difesa, con conseguente spostamento dell'udienza.
   L'effettivo contemperamento dei due valori costituzionali di cui si
 sta discutendo sarebbe invece assicurato dalla sospensione del  corso
 della  prescrizione  del  reato  nel caso di impedimenti ex art.  486
 c.p.p. Dal ragionamento sopra fatto, e' evidente che, nel  caso  tale
 contemperamento   non  possa  raggiungersi,  dovrebbe  sempre  essere
 assicurato  il  diritto  di  (effettiva)  difesa,  ma  e' altrettanto
 evidente che la possibilita' di esercizio dell'azione penale verrebbe
 nel concreto vanificata dal  decorso  del  termine  di  prescrizione,
 dovendosi   pertanto  sacrificare  uno  dei  due  valori  di  rilievo
 costituzionale (scegliere  il  minore  dei  mali).  Il  risultato  e'
 comunque  inaccettabile  perche'  la certezza del diritto e la tutela
 del bene giuridico, oggetto della tutela  penale,  hanno  particolare
 rilievo costituzionale.
   Ma,  come  sopra  accennato, tale risultato si potrebbe raggiungere
 solamente attraverso una previsione legislativa,  peraltro  auspicata
 da  piu'  parti.  Un'espressa previsione, cioe', che, nel caso in cui
 occorra necessariamente provvedere a  differire  la  trattazione  del
 processo  per  il  legittimo  impedimento  dell'imputato  e/o del suo
 difensore per non ledere il  diritto  di  difesa,  sia  nel  contempo
 assicurata l'effettivita' dell'esercizio del potere punitivo da parte
 dello Stato.
   A  questo  punto  non  puo'  non  riscontrarsi,  a parere di questo
 giudice,  una  tendenza  evolutiva,  sullo  specifico   punto   della
 prescrizione, della giurisprudenza della Corte costituzionale.
   Secondo  una  prospettiva  che  si  potrebbe definire sanzionatoria
 rispetto a comportamenti strumentali, si segnala, in questo iter,  la
 sentenza  n.  10  del  9-23 gennaio 1997. E' importante notare che il
 giudice remittente aveva prospettato, in alternativa, la questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 37, comma 2 e 124, commi 1  e
 2  del  c.p.p.,  nella  parte  in  cui  non prevedono che, in caso di
 reiterazione della dichiarazione di ricusazione, il  giudice  potesse
 ugualmente  emettere  la  sentenza,  ovvero  nella  parte  in cui era
 preclusa la sospensione dei termini di prescrizione dei reati  per  i
 quali si procedeva.
   La Corte dichiarava assorbita dalla dichiarazione di illegittimita'
 dell'art.   37,   comma  2,  la  questione  prospettata  in  tema  di
 prescrizione, senza dunque  entrare  nel  tema  dell'inammissibilita'
 della questione.
   Ancora  piu'  importante  appare  la precedente sentenza n. 114 del
 23-31 marzo 1994. A parte  l'auspicata  regolamentazione  legislativa
 della  questione,  va  sottolineato  l'esame condotto dalla Corte dei
 rapporti fra l'art. 486 c.p.p. e la  possibilita'  di  sospendere  il
 processo.  L'Avvocatura  dello  Stato aveva rimarcato la possibilita'
 secondo la quale l'art. 486  c.p.p.,  nella  sua  portata  letterale,
 sembrava   demandare   al  giudice  la  possibilita'  di  scelta  tra
 sospensione o rinvio,  potendosi  quindi  ravvisare  nella  possibile
 sospensione una di quelle cui fa riferimento il primo comma dell'art.
 159  c.p.p.    La  Corte  non  accoglieva  tale  interpretazione.  In
 particolare, veniva osservato che ne' sotto  la  vigenza  del  codice
 abrogato  ne'  con  riferimento  al  nuovo  codice  di rito risultava
 essersi  affermata  in  dottrina  o  in   giurisprudenza   una   tesi
 interpretativa   che   avesse   ricondotto   le   ipotesi   di  stasi
 dibattimentale  dovute  all'impedimento  dell'imputato  o   del   suo
 difensore  nell'alveo  del  concetto  di sospensione del procedimento
 penale.
   Occorre pero' osservare a questo punto:
     1) E' sicuro che l'art. 486 c.p.p.  incorre  in  una  "disarmonia
 terminologica" laddove fa riferimento alla sospensione o al rinvio in
 maniera   indifferenziata:   su   cio'  la  Corte  costituzionale  e'
 d'accordo;
     2)  Laddove  il  legislatore  prevede  che,  in caso di legittimo
 impedimento, il giudice "sospende o  rinvia"  il  dibattimento,  tale
 espressione   appare   ridondante   da  un  lato  e  di  assai  ardua
 comprensione dall'altro.
   E'  evidente  che,  se  sospensione  e  rinvio  hanno  un   diverso
 significato,  e  non  possono  non  averlo,  il  giudice,  laddove si
 verifichi l'impedimento potra', secondo la  portata  letterale  della
 norma,  dalla  quale  non si puo' prescindere, sospendere o rinviare.
 Ma, se sospende, non rinvia, se rinvia, non sospende. Sospensione del
 dibattimento  e  rinvio  sono  sicuramente   compatibili,   come   ci
 confermano  l'art.  477  c.p.p.   (che parla di "prosecuzione") e gli
 artt. 508  e 509 c.p.p. (che parlano di fissazione della  data  della
 nuova   udienza),   ma   quello   che   cio'  sta  a  significare  e'
 semplicemente che anche nel caso di sospensione, la  regola  generale
 e' che la successiva udienza venga comunque prefissata.
   A fronte di tale assetto normativo, o l'espressione di cui sopra va
 intesa  nello  stesso senso di cui agli artt. 477, 508, 509 c.p.p.  i
 quali non configurano altro che  varie  ipotesi  di  sospensione  con
 rinvio  ad udienza fissa, ovvero non ha alcun significato logico, non
 potendo certo i due termini  corrispondere  a  concetti  equivalenti.
 Cio'  nonostante, i due termini, nei massimari, si trovano utilizzati
 in  maniera  assolutamente  indifferente  ed  intercambiabile.  Nella
 prassi   assolutamente  dominante,  poi,  ancora  piu'  curiosamente,
 l'interpretazione  data  all'endiade  usata  nell'art.   486   c.p.p.
 ("sospende o rinvia"), e' quella di un differimento ad altra udienza,
 ove   si   ritenga   sussistente   il   legittimo   impedimento.   E'
 verosimilmente tale ultima situazione quella cui  fa  riferimento  la
 sentenza   n.   114/1994,   laddove  parla  di  linea  interpretativa
 presupposta dal giudice a quo, sin qui priva di adeguati contrasti, e
 che non puo' essere disattesa dalla Corte.   Sempre nella  prassi  la
 sospensione  prevista  dall'art.  486 c.p.p.   viene anche vista come
 sospensione ad horas nell'ambito di un'udienza fissata nella medesima
 giornata: anche tale interpretazione, tuttavia, se pure  puo'  essere
 comprensibile  dal  punto  di vista pratico, non trova alcun supporto
 nel  diritto  positivo,  poiche'  si   fonda   sull'indimostrato   ed
 indimostrabile   assunto   che   il  legislatore,  laddove  parla  di
 sospensione del processo, intenda  riferirsi  ad  un'interruzione  di
 fatto, circoscrivibile al massimo nell'arco di una giornata.
   Ritiene  invece  questo giudice che la linea interpretativa, cui fa
 cenno, incidentalmente, la Corte, possa essere contrastata alla  luce
 di quanto sopra detto. Se cosi' e', le alternative non possono essere
 che due:
     la  congiunzione  "o" e' una sorta di refuso, un lapsus in cui e'
 incorso il legislatore, dovendosi intendere non "sospende  o  rinvia"
 bensi'  "sospende  e  rinvia",  con cio' ritornandosi nell'ipotesi di
 rinvio ad udienza fissa conseguente alla  sospensione  del  processo.
 Basta una mera interpretazione del dato letterale, in tale ipotesi;
     l'espressione  "sospende  o rinvia" e insuscettibile di qualsiasi
 interpretazione logica  o  accettabile,  non  potendosi  tra  l'altro
 individuare  - se effettivamente essi sono due istituti differenti ed
 alternativi - quali siano i casi in cui il giudice sospende  e  quali
 siano  quelli  in  cui  rinvia:  tale  difficolta' e' adombrata dalla
 stessa Corte nella predetta sentenza n. 114.
   La  riconduzione del sistema a razionalita' e civilta' e' possibile
 non mediante una sentenza additiva, bensi'  attraverso  una  sentenza
 declaratoria  di  illegittimita'  dell'inciso  "o  rinvia". Dopo tale
 declaratoria, il periodo e' perfettamente comprensibile, ragionevole,
 impedendo anche l'indebito decorso del periodo  di  prescrizione:  la
 sospensione  del  processo  diviene  non  ipotesi  controversa bensi'
 previsione tassativa, perche' richiamata dal  primo  comma  dell'art.
 159 c.p.
   In  via  subordinata, non appare a questo giudice azzardata l'altra
 opzione ripetutamente sollecitata dai giudici di merito  sia  perche'
 l'inerzia  del  legislatore, a fronte degli auspici manifestati dalla
 stessa  Corte,  persiste,  sia  perche'  la   portata   additiva   di
 un'eventuale   sentenza   declaratoria   di   incostituzionalita'  si
 limiterebbe a rendere esplicito un principio che  appare  insito  nel
 sistema  normativo, e che non puo' essere applicato proprio in virtu'
 della specifica portata  letterale  del  primo  comma  dell'art.  159
 c.p.p.  Che poi si tratti di una pronuncia in malam partem non sembra
 determinante, perche' la declaratoria  verrebbe  ad  incidere  in  un
 tessuto normativo che non puo' non definirsi a carattere strettamente
 processuale,  e solo in via indiretta, di diritto penale sostanziale,
 limitatamente  ai  riflessi  sulla   regolamentazione   della   causa
 estintiva del reato.
   Sotto  tale  ultimo  profilo,  andrebbe  condivisa  la recentissima
 ordinanza del pretore di Verbania (Gazzetta Ufficiale   n. 41  dell'8
 gennaio   1997,   pag.   87)   la   quale  denuncia  l'illegittimita'
 costituzionale  secondo  paradigmi  gia'  tracciati  (e  sinora   non
 condivisi dalla Corte).  Sul punto va solo precisato che il contrasto
 con  l'art.  97  della  Costituzione  non  si verificherebbe sotto lo
 stretto profilo dell'andamento dell'attivita' giurisdizionale (l'art.
 97 della Costituzione non  riguarda  l'attivita'  giurisdizionale  in
 senso   stretto   secondo  la  giurisprudenza  della  Corte)  ma  per
 l'ingiustificato  aggravio  che  comporterebbe   sotto   il   profilo
 organizzativo-burocratico  delle  cancellerie,  dal  momento  che  le
 strutture giudiziarie dovrebbero farsi carico di destinare  personale
 e  risorse  rispetto  a  numerosi procedimenti il cui esito probabile
 sarebbe quello di un'estinzione del reato:  vistoso, in tal senso, e'
 il caso dell'ingente personale delle procure circondariali.
   Cio' posto, va dichiarata rilevante e non manifestamente  infondata
 la  questione  di  legittimita' costituzionale dell'inciso "o rinvia"
 contenuto nel primo e nel terzo comma  dell'art.  486  c.p.p.  ,  per
 contrasto con il principio di ragionevolezza sotteso all'art. 3 della
 Costituzione,  nonche'  con  l'art.  112 della Costituzione, relativo
 all'esercizio   dell'azione   penale,    che    sarebbe    altrimenti
 neutralizzato.
   In     via     alternativa    e    subordinata,    va    denunciata
 l'incostituzionalita' dell'art. 486 c.p.p., in relazione all'art. 159
 c.p., nella parte in cui non prevede fra i casi  di  sospensione  del
 procedimento  da  cui  discende la sospensione della prescrizione, il
 "legittimo impedimento" che  rende  necessario  il  differimento  del
 processo.